Il sopruso è talmente immenso che prevale il silenzio. Anzi, si ripete l’alchimia di far passare per vittima chi uccide.
La Fondazione Treccani promuove un Festival della lingua italiana, scegliendo le parole. Nel 2025 è arrivato all’ottava edizione. L’appuntamento è nelle piazze d’Italia, un incontro informale, l’invito aperto a chiunque, senza enfasi, la logica di non vendere un prodotto, piuttosto di ragionare ad alta voce da punti di vista diversi. Quest’anno, la parola è: «Responsabilità». Per esempio, rispetto ai fatti e alla loro narrazione in tempi di guerre, nei sistemi autocratici, dinanzi alla violazione reiterata dei diritti umani, soprattutto, in un ambiente manipolato dall’abuso dei social media e condizionato da un’intelligenza artificiale generativa, senza regole.
Chi scrive, ha offerto gli esempi delle scelte possibili, ieri come oggi, declinando a livello soggettivo l’impegno, la conoscenza, la coscienza e il coraggio, con il conto dei relativi prezzi. Il racconto si è soffermato soprattutto sulla resilienza, che diventa pura energia, di quell’umanità travolta dalla guerra come dalla dittatura, a prescindere dalle fedi, mentre i campi seccano, e i diritti fondamentali (salute. istruzione, lavoro) appassiscono. Ma la stampa occidentale, di cui la nostra è diventata periferia, spesso fa confusione sulla storia e sulla geografia, prigioniera dei luoghi comuni a proposito delle migrazioni. In più, da noi, distratta dalle narrazioni di parte tra le parti, senza pensare a chi legge o ascolta, di fatto secondario, quasi che ci fossero ancora le ideologie, nel vuoto invece della politica.
Benché a bordo palco, a tu per tu, senza microfono, le domande sono venute: la responsabilità? non viviamo invece nell’esclusione della responsabilità? Non sono proprio i cittadini, le prime vittime di un’informazione oramai asservita e strumentalizzata? Come possiamo difenderci dalle false notizie? Continuamente brutalizzati dai linguaggi d’odio, disinformati ogni giorno, confusi da nuove informazioni, che sembrano cancellare quelle del giorno precedente?
La cosiddetta opinione pubblica timidamente si ribella, palesemente è smarrita. Il giornalismo ha la responsabilità di tornare alla sua funzione, più che mai in questo momento e nella nostra bella Italia: narrazioni corrette e commenti che stimolino la riflessione, che stia dal lato opposto della faziosità. Non si costruisce sull’odio.
Torniamo ai fatti. Trump continua ad essere fonte di notizia primaria. L’aggiornamento interviene più volte al giorno. Le notizie, d’altra parte, lui le fabbrica e direttamente le diffonde. Il bilancio federale appena approvato dalla Camera a Washington, addirittura per un solo voto, nelle sue parole è diventato One, big beautiful bill. L’Immobiliarista non si smentisce, vende le leggi come le case. Non è una battuta: chi dice «è una grande, bella legge», pensa ad una villa sul mare. È la stessa persona che è arrivata ad immaginare una riviera del Medioriente sul litorale insanguinato di Gaza. Sempre lui, che mette in ginocchio le grandi università americane, tagliando i fondi, negando l’accesso agli studenti stranieri, privo della cultura che si emoziona davanti alla bellezza e al valore della conoscenza, lui che teme il confronto quando non è armato di clava, perché sceglie il ricatto per imporre l’interesse. Come ha ampiamente dimostrato nel recente tour tra gli sceicchi del Golfo e alla corte saudita, con al seguito gli imprenditori americani più ricchi, spregiudicati e fedeli, la sua cultura è quella degli affari, la politica si misura in dollari, la società si fonda sulla diseguaglianza. E i dazi del 50 per cento che Trump si appresta ad applicare all’Europa - on importa se saranno un disastro annunciato per l’economia - esprimono la sua vendetta su un mondo che lui non riconosce.
Un mondo però che non può riconoscerlo, in una stagione che distrugge il precedente ordine globale, senza alcuna visione riformista. Un comportamento non dissimile dall’oligarchia di marca putiniana, con il dittatore russo che continua a giocare al gatto e al topo con l’Ucraina e con l’Europa tutta, sotto la minaccia permanente della disinformazione costruita deliberatamente a Mosca, nell’identico abuso degli strumenti di controllo di massa (Foreign Information Manipulation and Interference) che le strutture europee studiano per poterle combattere (EEAS , European External Action Service).
Eppure in Italia ci ritroviamo con un governo, dove la presidente del Consiglio vanta presunte corsie privilegiate che porterebbero all’imbarazzante tycoon, mentre l’Italia è rimasta fuori dal gruppo di testa dell’Europa; dove un vice-presidente continua ad esibirsi in relazioni ravvicinate con Putin e contro l’Europa, mentre l’altro vice-presidente filoeuropeo, anche per il suo passato, sembra isolato. Si tagliano servizi essenziali, garantiti dalla Costituzione e dalle leggi di attuazione, come la sanità e la scuola. Si confondono le carte. Il Quirinale ha mosso rilievi sacrosanti al decreto legge che introduce nuove modifiche al codice dei contratti pubblici, una legge ad hoc per il pericoloso ponte di Messina, in pratica, un annacquamento dei controlli sugli appalti, lasciato alla politica (il ministero dell’Interno), accantonando la solida legge ordinaria contro le infiltrazioni mafiose. Ma la narrazione si rovescia. Nei talk e sui giornali, la propaganda leghista trova gli spazi per raccontare il contrario, promettendo battaglia.
Vale invece l’opposto per i referendum dell’8 e 9 maggio, che rappresentano la forma più diretta della democrazia, rispetto ai quali gli spazi di informazione non si trovano. Anzi, la propaganda si spinge fino all’invito a disertare il voto, arrivando a spendere il credito di istituzioni che dovrebbero essere per loro natura super partes. La lettura politica, in pratica, rinuncia alla sua responsabilità, nonostante l’evidenza delle pezze su un vestito vecchio, nell’incapacità di cucirne uno nuovo. Il dibattito non può essere rappresentato sempre come scontro, né le domande come proteste. «Disarmate le parole», ha detto il papa, incontrando i giornalisti. Invece è guerra. E l’ultima annotazione non può che riguardare Gaza e l’attacco criminale che da venti mesi Netanyahu ha scatenato non solo contro Hamas, ma contro l’intero popolo palestinese. Le notizie sulla tragedia più grave di questo inizio di secolo non possono guadagnare la prima pagina solo se una bomba israeliana colpisce una casa dove vivevano dieci bambini, figli di una pediatra palestinese, che stava lavorando in ospedale, uccidendone nove. Non si vende l’orrore. Ogni giorno a Gaza, sotto i colpi dell’esercito israeliano, per fame e mancanza di qualsiasi aiuto, muoiono decine di civili, soprattutto donne e bambini. Le notizie non passano, né si interviene. Il sopruso è talmente immenso che prevale il silenzio. Anzi, si ripete l’alchimia di far passare per vittima chi uccide. Lo dicono oramai tante voci in Israele, voci del mondo della cultura e della società civile, con i sondaggi che danno perdente il governo in carica alle prossime elezioni. Per la responsabilità, una sconfitta.
Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 maggio 2025