Cinquant’anni fa, nella giornata di oggi, 19 maggio, una legge sanciva la parità dei diritti dell’uomo e della donna all’interno della famiglia e si riconoscevano i diritti dei figli, che fossero nati dentro o fuori il matrimonio.
Una svolta sociale, che dava attuazione all’art.29 della nostra Costituzione sull’eguaglianza morale e giuridica tra i coniugi. In un tempo di forti passioni politiche e di tensioni, si affermava il ruolo delle donne in Parlamento. Benché fossero una minoranza schiacciante (49 su 982 parlamentari, ma alla fine degli anni ‘70 sullo scranno più alto della Camera sarebbe salita Nilde Jotti) erano state capaci di muovere maggioranze trasversali sugli obiettivi.
C’erano voluti dodici anni per approvare la riforma del diritto di famiglia in un iter tormentato, tuttavia consapevole. La società cambiava, ne cambiavano i bisogni: allora, la politica si poneva il dovere di interpretarli. Nelle differenze, era un sentimento condiviso, anche dai vertici maschili dei principali partiti. Con la legge 151 si superava il concetto della patria potestà ovvero si cancellava per legge la visione proprietaria dell’uomo sulla donna (cinquant’anni passati inutilmente?), i minori guadagnavano il centro della scena con il riconoscimento dei loro diritti: non sarebbero mai più stati NN ovvero «Nemo Nemini», nessuno di nessuno, finiva l’era patriarcale in Italia. Lo dice la legge, ma la sequela di femminicidi e di violenze di vario genere a danno delle donne non lo confermano.
Si era appena votato per il referendum sul divorzio, un Paese spaccato e minacciato dal terrorismo aveva scelto la strada del cambiamento. Sarebbero seguite altre grandi riforme, nel mondo del lavoro, nella sanità, guidata per la prima volta da una donna, Tina Anselmi, prima ministra della Repubblica e poi nell’economia, nella scuola. Al governo, sarebbe approdato un centrosinistra che avrebbe aperto all’appoggio esterno del PCI. Spiccava la figura di Aldo Moro, lo statista delle «convergenze parallele», fautore di un accordo tra i principali partiti a tutela della democrazia, ma che avrebbe stretto la mano di Enrico Berlinguer e del suo sogno di un «compromesso storico». L’epilogo di quegli anni di piombo, nel clima complottista e mafioso esaltato dalla P2, è noto. A Moro, sarebbe toccato il prezzo più alto e il compromesso non ci fu.
Il ricordo di quella stagione, oramai lontana mezzo secolo, (ma sembra un’era geologica, guardando al cortile politico attuale, mentre salgono di livello le sfide, in un percorso interrotto sul fronte dei diritti) è stato affidato, per la prima volta, soprattutto alle testimonianze delle donne che ne furono protagoniste. «In Parlamento con le donne», è una ricerca in corso, su iniziativa dell’associazione degli ex parlamentari, di cui abbiamo potuto ottenere le prime pagine, che sarà presentata nel gennaio del prossimo anno alla Camera. C’è già la data, il 23. Una sorta di «biografia della Nazione» che rimette al centro il Parlamento e le leggi di attuazione del dettato costituzionale. Nell’omaggio alla memoria, probabilmente il desiderio inconscio di restituire il ruolo che spetta alle istituzioni della nostra democrazia parlamentare, estranea ai premierati, con i suoi valori nazionali, non differenziati, attraverso la forza della passione civile che informava la vita politica.
Era un tempo imperfetto, anche per la grammatica. Perfetta, invece, la scelta della parola femminile, che sapeva sottrarsi alle strumentalizzazioni. Scorrendo l’estratto con le interviste delle parlamentari di allora, da Livia Turco alla Adriana Poli Bortone, passando per Laura Fincato e Mariapia Garavaglia (se ne aggiungeranno molte altre) ovvero passando dalla sinistra alla destra e dai socialisti alla Dc, si ritrovano contenuti, ai quali siamo disabituati. «La stella polare della mia scelta politica è la giustizia sociale, la mia è una famiglia operaia… sentivamo la necessità di costruire una forza collettiva delle donne per cambiare la politica, per non avere una coscienza infelice… serviva molto studio, una grande disciplina, molta umiltà... bisognava modificare il diritto di famiglia, pensando soprattutto alle categorie più fragili, ai loro diritti economici ignorati» (Livia Turco). «Non sono mai stata femminista… erano molto forti le tensioni, perché ciascuno aveva un’idea precisa nel riconoscersi in alcuni valori… la sinistra sapeva quale era il suo modello di società e così la destra, non si confondeva l’elettorato …non mi sono mai tirata indietro, ascoltavo e ascolto molto i giovani» (Adriana Poli Bortone). «Mio nonno era socialista, la mia è una famiglia di artigiani e di tipografi… ho cercato sempre, nella mia laicità, di difendere il progresso basato sull’uguaglianza …quando sono entrata per la prima volta in Parlamento, indossavo un vestito rosso. Ero orgogliosa del fatto che 20.000 persone avessero scritto “Fincato” sulla scheda, voleva dire che avevano fiducia in me … ritengo importante il lavoro in Commissione. Lì avevo conosciuto la Poli Bortone, parliamo di MSI, l’ho invitata ad un convegno socialista sulla scuola … è importante che si compiano i percorsi» ( Laura Fincato). «Il diritto di famiglia legittima i figli... la legge sull’adozione dice una cosa bellissima: i minori hanno diritto alla famiglia, quindi non è una famiglia che ha diritto ai figli, ma il contrario. Mio padre era un agricoltore e mia madre lavorava nel commercio si davano una mano. Io e mio fratello abbiamo potuto studiare … gli anni ‘70, guardando alle leggi, sono stati innovativi e hanno dato uno status alla donna, anche economico… noi politici eravamo utili alla società… potevi contare sulla politica, perché ti creava le condizioni di una vita migliore. Le difficoltà non mancano, ma si superano: io sono ottimista». (Mariapia Garavaglia).
Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 19 maggio 2025