La domanda: perché ricorrere ad un provvedimento d’urgenza - tale è un decreto legge del governo - dal momento che della materia se ne stava occupando il Parlamento, tra l’altro, in un dibattito rovente?
Si apre una settimana ricca di eventi che ci riguardano, dentro e fuori i nostri confini, in apparenza slegati, ma inevitabilmente connessi, perché, tra gli altri, riguardano la tenuta della democrazia, in un clima inquinato dal sospetto. Si comincia oggi con uno sciopero deliberato dalla Giunta delle Camere Penali, già all’indomani del «decreto sicurezza» dello scorso 11 aprile, che durerà tre giorni. La domanda: perché ricorrere ad un provvedimento d’urgenza - tale è un decreto legge del governo - dal momento che della materia se ne stava occupando il Parlamento, tra l’altro, in un dibattito rovente? Secondo gli avvocati penalisti, si configura un abuso, lo stesso che ritorna nella gravità del merito, restrittivo delle libertà individuali, sostanzialmente identico alle misure contestate dai parlamentari. Una protesta, che non sarà in piazza ma nei tribunali, dove si sospende il diritto di difesa, non la prescrizione, mentre tutto tace.
Eppure, la critica è feroce: nel decreto si evidenzierebbero «nuove ipotesi di reato inutili; molteplici, sproporzionati e ingiustificati aumenti di pena; la criminalizzazione della marginalità, una visione repressiva che non prevede alternative al carcere». Sono parole pesanti, scelte da giuristi per un documento ufficiale. Destinatari, il Presidente della Repubblica, i Presidenti di Camera e Senato, la Presidenza del Consiglio, il Ministro della Giustizia, il Consiglio dell’Ordine Forense. Cosa altro si dovrebbe aggiungere? Sui nostri media, diventati prevalentemente strumenti di scontro e di controllo politico, declassati da Reporter Sans Frontières, nell’indice annuale e mondiale della libertà di stampa al 49esimo posto (ci battono gli Stati Uniti di Trump al 55esimo, ma nessuno dei Paesi europei) non compare una riga. Le condizioni «degradanti» degli istituti di pena, afflitti da super affollamento, carenza di personale e di servizi, citate con dovizia nel documento, sono scivolati come fatti secondari. Si è configurato invece un attacco pretestuoso al governo, impegnato nella garanzia della sicurezza a vantaggio dei cittadini, trascurando che i principi non possono entrare in concorrenza con la legalità, nè i diritti umani trasformarsi in coriandoli. Può non contare l’abnorme numero dei suicidi in carcere (90 lo scorso anno, 28 in questi primi quattro mesi) o le patologie neurologiche, che riguardano oramai una parte sempre più estesa della popolazione dietro le sbarre, in aumento, in assenza di nuove strutture, di percorsi di recupero e tantomeno di prevenzione?
Piaccia o non piaccia sarebbe un problema sociale, da approfondire e dunque da affrontare, senza scomodare i complotti. L’Italia era il Paese di Cesare Beccaria, oggi?
Andiamo in Germania, dove mercoledì giurerà Friedrich Merz. È il decimo cancellierato federale e potrebbe essere il baluardo della liberal democrazia in Europa, il brandmauer, la barriera contro gli imperialismi autoritari dell’est, le spinte sempre più oltranziste delle destre e il disordine mondiale cavalcato da Trump, sempre aggressivo verso l’Europa, con l’aggiunta delle posizioni reazionarie del suo vice Vance. Cosa si mette in evidenza invece sulle prime pagine, soprattutto dei giornali italiani, alla vigilia del suo giuramento? In un clima di polemiche complottiste, c’è il report dei servizi di intelligence tedeschi, che hanno raccolto le prove della seria minaccia eversiva portata avanti dall’Afd, il partito neo-nazista in crescita nei sondaggi. Un report bollato come strumentale. Ma «Germany is back» ovvero «la Germania è tornata» è l’auspicio dello stesso Merz, che non nasconde le difficoltà del momento, da lui stesso definito «senza euforia». La Germania della coalizione cristiano-democratica e socialista giocherà comunque fino in fondo la sua partita. Proverà a costruire un nuovo modello di sviluppo da sostituire a quello che non funziona più, con forti investimenti nelle infrastrutture e nelle tecnologie; accentuerà il suo sostegno all’Ucraina di concerto con l’Europa; punterà sull’autonomia militare nell’incertezza dell’apporto americano; cercherà il suo ruolo di grande paese anche attraverso nuove alleanze. E la sua vicinanza storica e geopolitica con la Russia potrebbe essere significativa.
Del resto, non è già accaduto? Nella storia che non si ripete, ma che lascia traccia, a metà degli anni sessanta, la prima coalizione tra il socialdemocratico Willy Brandt e il cristiano-democratico Franz Joseph Strauss, conservatore più di Merz, avevano inaugurato l’Ostpolitik ovvero la politica del dialogo e della collaborazione. Nel clima difficilissimo del primo dopoguerra fu vinto l’isolazionismo del blocco orientale. È cambiato tutto, è ovvio, ma l’autorità morale della politica nella politica può continuare a fare la differenza. Almeno, tocca augurarselo. Non esprime invece traccia di autorità politica, né morale il comportamento di Trump. Con indosso le vesti del Papa, nell’immagine diffusa dalla Casa Bianca, è apparso penoso e affatto spiritoso. Almeno, come l’irritazione dei porporati americani ha dimostrato, la trovata sarà tutt’altro che utile ad una ipotesi vaticana pro-US. Sul conclave, che pure si avvia mercoledì, sarebbe preferibile la scelta dell’attesa, forse più lunga del previsto, all’inaudito chiasso mediatico in corso.
Saranno inoltre importanti i due eventi, che introdurranno al fine settimana. In Russia e in Italia. A Mosca, con una grande parata, si celebreranno gli 80 anni della vittoria nella «grande guerra patriottica», come i russi definiscono la seconda guerra mondiale, alla presenza di Xi Jinping e non dei leader occidentali. Quali successi sbandiererà il Presidente Putin dopo tre anni di una guerra, che ha logorato il suo Paese? Reggerà la breve tregua annunciata o ci saranno sorprese sul fronte ucraino? Ma il leader cinese arriva dal fratellino moscovita, dopo un giro di ispezione nel quadrante dell’indo-pacifico, per intenderci guardando a Taiwan, ed ha parlato dell’«imperativo di approfondire la pianificazione della guerra e del combattimento…». Minacce, che si aggiungono alle solite minacce oppure rischi in salita nella guerra mondiale a pezzi, profetizzata da papa Francesco, dove i vinti restano più numerosi dei vincitori?
Al contrario, dovrebbe essere assolutamente pacifica per l’Italia la sfida dell’8 e del 9 giugno nel segno dei diritti, benché trascurati in una narrazione fino all’ultimo debole e inadeguata. Parliamo del referendum, che abroga le leggi, uno degli strumenti più forti della democrazia diretta. Serve leggere i quesiti ed andare alle urne. Si tratta di votare su temi relativi alla cittadinanza ed al lavoro, ovvero i cardini di una società democratica, che non hanno segno politico. Qualora il quorum del 50 per cento più uno non dovesse essere raggiunto, la consultazione andrà fallita e ai popoli vinti si aggiungerà il nostro. Va fatto il tentativo di evitarlo, magari.
Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 5 maggio 2025