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L’ultimo saluto al Papa e quella forza che unisce oltre ogni barriera

Quelle pagine del Vangelo, sfogliate dal vento, con il libro aperto sulla bara, a tratti palpitanti, quasi un respiro, prima che un’altra folata riuscisse rovesciarle. Il corpo chiuso all’interno della cassa essenziale, senza fiori, solo una croce sul coperchio, il legno naturale che spiccava sul piano rosso della lettiga. Nelle immagini del drone, un tassello rosso al centro del sagrato di San Pietro.

Anche il funerale ha rispettato la personalità di Francesco. La regia, affidata alla forza del rito, che scavalca la cornice e si fa sostanza oltre la forma, ha reso il momento universale, emozione condivisa, soffio di fede. La cerimonia ha consegnato al mondo l’immagine di una forza sconosciuta al laicismo e amica dell’umanità. Una forza che unisce oltre ogni barriera, anzi che cancella le barriere, dimostrando che è possibile. Nel nostro tempo tecnologico, dove lo sviluppo declina nuove minacce, l’uomo è tornato al centro. Le centinaia di migliaia di persone che hanno voluto esserci, anche quelle che lo hanno fatto per opportunismo, le più concentrate nel rettangolo in abito scuro riservato alle autorità di governo e diplomatiche, alla sinistra dell’altare, si sono ritrovate semplicemente persone a prescindere dai ruoli, dal censo, dalla lingua, dal genere, dal colore, dall’anagrafe, dal proprio dio. A destra, invece, il lago rosso delle porpore, giunte da tutto il mondo, anche per il conclave, e intorno il campo bianco dei sacerdoti e dei diaconi , cinquemila concelebranti, di cui duecentoventi cardinali e settecento cinquanta vescovi hanno dato il senso della potenza dell’ecumenismo che non fa rima con l’egoismo e che può offrire un punto d’incontro pur nell’imperfezione della storia terrena. Per un attimo, ciascuno ha chinato il capo, solo con sé stesso e - breve o lungo che sia stato - ha fatto il proprio esame di coscienza.

Dopo gli estenuanti primi mesi dell’era Trump nel segno della sopraffazione con conseguenze già gravissime ad ogni latitudine, esaltate dall’atrocità delle guerre, sotto il cielo luminoso di Roma si è tirato un respiro di sollievo, ha trovato corpo la speranza. Forse. Si potrà percorrere la strada della pace? La foto con le due sediole damascate sotto l’immensità della volta di San Pietro, ha espresso il suo significato anche nella postura di chi le occupava: Trump e Zelensky erano protesi l’uno verso l’altro. Quell’immagine ha cancellato il ricordo odioso del loro primo incontro nello Studio Ovale della Casa Bianca. Quindici minuti di dialogo in campo neutro, anzi benedetto. E l’altra foto a quattro, Trump, Staimer (il premier britannico), Macron e ancora Zelensky, con la mano del presidente francese, che in quel momento rappresentava l’Europa, sulla spalla di quello ucraino ha rafforzato l’intento. L’Occidente, nella multipolarità affannata alla ricerca di nuovi equilibri, non può rinunciare al suo ruolo. È cambiato quasi tutto nelle relazioni internazionali, a cominciare dalle modalità delle relazioni stesse che non trovano il tempo dei rapporti, né obiettivi comuni di benessere. Siamo spettatori impotenti delle accelerazioni della Storia in un’epoca di passaggio verso un futuro che sfugge alla percezione dei più, costretti a subire un presente ingiusto e illiberale. La giornata di lutto del 26 aprile, successiva a quella della Liberazione, ha esaltato il senso della comunità in cui possono riflettersi i popoli, primi custodi del proprio destino. E il popolo di una Roma finalmente pulita e composta, offerta al mondo nella sua bellezza ineguagliabile, ha fatto ala al corteo della Papamobile che ancora una volta portava Francesco nelle vie del centro. Un passaggio che poteva essere più lento nel nome dell’attesa di chi era lì da ore per un attimo di contatto. Felice tuttavia di esserci per un omaggio all’uomo che ha saputo farsi amare, capace di diventare ultimo tra gli ultimi, sempre dalla parte dei più deboli contro l’ingiustizia, a prescindere dalle loro fedi, a cominciare dai musulmani di Gaza e della Cisgiordania, convissuti per secoli sulla stessa terra dei cristiani e di quegli ebrei che sanno vincere i pregiudizi. E meravigliosa anche la presenza dei giovani, finalmente numerosi, in grandi gruppi, sorridenti per le strade, dopo la notte accampata nelle tende al centro della città come nelle periferie. Un ragazzo riccioluto con voce emozionata ha detto ad un microfono: «Il papa ha lasciato aperti tanti cantieri… dovevo essere qui». Nelle sue parole, non il senso dell’opera incompiuta, ma il valore dell’eredità da raccogliere, a cominciare da sé stesso. E una donna anziana, senza tetto e senza denti, convinta e orgogliosa sussurrava: «Il Papa era amico mio. È venuto a trovarmi tante volte». La gioia è restata nel saluto, senza marcare il distacco. Un saluto che è continuato nella piazza di Santa Maria Maggiore, dove il Papa è stato tumulato nella nuda terra, sotto una lastra di marmo in un punto anonimo della navata laterale, come lui aveva indicato nel suo testamento, lasciando fuori le telecamere. La dicitura sulla pietra, essenziale: «Franciscus».

Pubblicato il 28 aprile 2025 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

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