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Straordinario apostolato di una voce isolata sempre vicina agli ultimi

«In nomine Patris ed Filii et Spiritus Sancti». In un sussurro, con il respiro che non trovava più il suo ritmo, dinanzi alla folla immensa di San Pietro nel giorno di Pasqua, nell’anno del Giubileo, Papa Francesco ha impartito la benedizione «Urbi et Orbi»

Per lui, l’ultima. Dal silenzio è scoppiato un boato. I fedeli che avevano ascoltato attenti il messaggio del pontefice, affidato alla lettura di un prelato, un discorso di straordinaria forza ecumenica, nella visione spirituale di chi è stato capace di avviare un processo di riforme senza precedenti nella Chiesa, dinanzi a quelle parole, quasi impercettibili, affaticate, hanno pianto, si sono spellati le mani, hanno ringraziato il cielo. Francesco è sceso poi dalla loggia tra il popolo, uomini e donne da ogni parte del mondo in un giorno di sole, commossi e grati per quel dono inatteso. Con il coraggio generoso e l’umanità spontanea che abbiamo imparato ad apprezzare, il Santo Padre ha interpretato fino alla fine il suo straordinario apostolato, vicino agli ultimi.

Una voce rimasta isolata in questo tempo di miserie umane e di guerre, dove leader politici protervi, oligarchi arroganti e leadership improvvisate ci fanno correre il rischio di tragedie epocali. Una voce addirittura criticata per la sua semplicità, eppure mai banale, né tanto meno scontata. Francesco non ci lascia soli. Tutto in questo addio dà la forza della continuità. Il momento, il giorno, il suo calvario, la eco fortissima del suo esempio, la stessa singolarità dei dodici anni umanissimi di pontificato, condivisi per nove anni, per la prima volta, con un predecessore, Benedetto XVI, un teologo. Lui non aveva voluto numeri romani accanto al suo nome di Papa, semplicemente Francesco, come il poverello di Assisi, con indosso un saio, che nelle immagini più recenti è diventato addirittura un poncho. Eppure era un gesuita, il primo sul trono di Pietro. E da subito, la sua designazione è stata al centro di polemiche. Chi è quell’argentino che cambia le regole? «Buonasera» per cominciare, in una sera di marzo del 2013 a Piazza San Pietro, chiedendo alle sorelle ed ai fratelli di pregare per lui, presentandosi con una battuta: «Voi sapete che il dovere del conclave è quello di dare un vescovo a Roma, sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo alla fine del mondo…ma siamo qui. Vi ringrazio dell’accoglienza, grazie». Chi scrive, era lì quella sera, rapita dall’emozione, come tutti gli altri. Serviva aria nuova per la Chiesa, travolta dagli scandali nati da Vatileaks, che davano il senso di divisioni e lotte intestine in Vaticano, quell’uomo la interpretava.

La folla, da subito, lo aveva capito. Era stato contiguo alla dittatura argentina? Non aveva difeso i gesuiti di Buenos Aires? Era un populista? Le speculazioni, alimentate da motivi tutt’altro che nobili, sono state frantumate dalle testimonianze delle persone che l’avevano frequentato in Sud America.

Jorge Bergoglio, Papa Francesco, era sempre stato vicino al popolo, non alle elites. E il suo primo viaggio da pontefice lo aveva portato naturalmente vicino agli ultimi. Eccolo a Lampedusa, con quella ghirlanda di fiori che consegna al mare, diventato la tomba di tanti innocenti, donne, uomini, bambini, i migranti senza la dignità di un nome e dell’appartenenza a un popolo, in fuga da guerre, dittature e carestie, che i governi occidentali, sovranisti in particolare, hanno reso invasori pericolosi per le nostre società. E poi al Muro del Pianto, in Medioriente, vicino ai palestinesi, per i quali, in questi oltre 18 mesi di crimini contro i civili di Gaza e in Cisgiordania, ordinati dal governo Netanyahu, ha continuato a levare la voce, invocando la pace e la restituzione degli ostaggi ebrei come dei prigionieri musulmani. E poi a Cuba, con Fidel Castro nel segno della pacificazione e al Congresso Americano, all’Onu. Poi, con i leader i fede islamica, gli ortodossi, l’apertura alle chiese orientali, in particolare i buddisti, sensibile alla tragedia in Myanmar e accanto alla «martoriata Ucraina» come usava dire, spendendosi con impegno costante per la fine della guerra, nel segno però della giustizia e della libertà dei popoli.

Ancora. In Africa, in un tour che aveva toccato il Kenya, l’Uganda, la Repubblica Centrafricana, dove a Bangui, la capitale, aveva inaugurato il Giubileo straordinario della Misericordia, aprendo la Porta Santa lontano da Roma, per riportare una latitudine dimenticata, lacerata da conflitti anche religiosi, al centro del mondo. Scorrono immagini fortissime nella memoria di ciascuno, testimone di una figura salvifica, dal sorriso contagioso, impregnato di fede in Dio ma anche negli uomini e di lungimiranza politica. In particolare, si affacciano due momenti. Quella notte vuota in Piazza San Pietro, nel mezzo della pandemia e il suo discorso sull’etica e la tecnologia. Lo abbiamo visto solo, nel suo abito bianco, a passi lenti sul sagrato nella notte piovosa del Covid, mentre i rintocchi delle campane si univano alle sirene delle ambulanze. Aveva parlato, citando il virus, di «una tempesta improvvisa e furiosa» sull’umanità, «sulla stessa barca», confidando però nella preghiera, che poteva unire contro il male. E poi in Puglia, a Fasano, appoggiato al bastone, che presto sarebbe stato sostituito dalla carrozzina, nel giugno dello scorso anno, in occasione del G7. Per la prima volta, un Papa parlava alla politica internazionale di Intelligenza Artificiale. «Uno strumento affascinante e tremendo» per Papa Francesco e la sua esortazione: «impedite che una macchina possa decidere della vita di un essere umano», cosa che purtroppo già fanno le armi letali autonome nelle guerre in corso. Il richiamo all’etica: «il paradigma tecnocratico», entrato nella vita delle nostre società, ha il dovere di tenerne conto. La sua testimonianza è stata straordinaria e resterà indelebile. Un dono, come già detto. Francesco non ci lascia soli.

Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 22 aprile 2025

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