Il Pride oramai è di tutti. Dei giovani, delle donne, di chi si batte nel nome dei diritti, di chi condanna la guerra, di chi denuncia la sopraffazione, di chi si oppone alla violenza, di chi crede nel valore dell’uguaglianza e nei sentimenti per poter vivere in società più giuste
Il Pride oramai è di tutti. Dei giovani, delle donne, di chi si batte nel nome dei diritti, di chi condanna la guerra, di chi denuncia la sopraffazione, di chi si oppone alla violenza, di chi crede nel valore dell’uguaglianza e nei sentimenti per poter vivere in società più giuste.
Il suo valore politico, forte già negli anni Settanta, quando per la prima volta la celebrazione dell’orgoglio omosessuale scelse la piazza, uscendo dai vicoli e dal silenzio, più di cinquant’anni dopo è diventato il bene comune da esaltare e da difendere in un momento di incontro e di protesta condiviso a tutte le latitudini o quasi. (Vietano il Pride la Russia, le monarchie del Golfo, alcuni paesi africani, in Cina non è vietato, ma si evita). Lo ha certificato l’oceanica manifestazione di Budapest, con in testa il sindaco progressista Karàcsony, vietata inutilmente dal presidente Orban, dilagata nelle strade dell’oramai autocratica capitale ungherese, nonostante le barriere improvvisate dai militanti di estrema destra. Non ci sono stati incidenti. Gli ostacoli hanno provocato semplicemente la deviazione di un chilometro sul percorso: la marea colorata e rumorosa dei partecipanti ha inondato il ponte Elisabetta che lega le sponde di Buda e di Pest, proprio come il ponte della Libertà, il Szabadsag Hid, poco più in là, chiamato così nel ricordo della liberazione dal nazifascismo.
La politica europea che non trova l’antidoto ai fondamentalismi, indebolita a livello istituzionale, nel rapporto sempre più critico tra la Commissione (il suo governo di Bruxelles) e il Parlamento (il suo Consiglio di Strasburgo), esitante su tutti i fronti, inprimis la tutela dei diritti fondamentali, schiacciata dalle richieste americane in tema di armi, fisco e politiche commerciali, ha vissuto il sonoro sberleffo della piazza, che ha unito simbolicamente i popoli d’Europa. I giovani c’erano ed erano tanti, così le donne. Non erano lì per fare gazzarra: hanno espresso la loro testimonianza, il bisogno di visibilità, hanno unito le motivazioni e le cause diverse per tentare di renderle più forti. È quell’opinione pubblica che spesso diserta le urne, rinunciando alla partecipazione e alla consapevolezza del suo potere, ma che potrebbe fare la differenza, se la politica per incapacità e calcolo non continuasse a trascurarla.
Siamo giunti al paradosso che il diritto di manifestare perfino per il lavoro o per la libertà di studio, come nel nome dell’ambiente e contro la guerra, sventolando le bandiere dei popoli oppressi, in particolare quelle palestinesi, cui possono aggiungersi le bandiere iraniane, afgane e magari salvadoregne, diventa un attentato alla sicurezza, con il bollo dell’estremismo. La protesta civile, invece, è l’integratore che restituisce energia alle società impoverite. Lo stanno dimostrando anche le piazze italiane, comprendendone il senso oltre i social e la loro dittatura, per vincere l’anonimato. Il simbolo LGBTQIA+ contro l’omotransfobia, nel segno della lotta alla violenza di genere e alle discriminazioni ha guadagnato il suo spazio, sulla strada tuttora lunga dei diritti.
Forse ancora disturba, ma non spaventa: è diventato inclusivo. E da Milano a Bologna, da Roma a Napoli, si è spinto sempre più a Sud, passando per Bari, fino alla Sicilia, utile ad opporsi anche ai pregiudizi. È arrivato a coinvolgere - è accaduto una settimana fa al Pride di Palermo - perfino la battaglia per la legalità contro la mafia. Addirittura a Corleone, che della mafia è considerata la capitale, complice il cinema, ma soprattutto la cronaca omertosa e sanguinosa di oltre vent’anni, (chi scrive vi è tornata di recente) non mancavano le bandiere arcobaleno.
Tuttavia qui non è il senso dell’eccezionalità, che oggi premia. Percorrendo le strette vie che incidono i fianchi della montagna, dal Castello Soprano a quello Sottano, l’una che scende, l’altra che sale, dopo un viaggio dissestato e infinito di poche decine di chilometri da Palermo, senza più il treno tra i dirupi, proprio in questa cittadina irraggiungibile di poco più di 10 mila abitanti, si respira un’aria inattesa. Da tre anni è nata un’associazione che già nel nome esprime la sua sfida: «Corleone parla». L’associazione ha scelto le armi della cultura e dell’impegno civile.
In questi tempi di «irrilevanza», usando una parola che sembra riscoperta e subito abusata, i corleonesi delle ultime generazioni, stanno dando rilevanza ad un progetto sociale che li impegna ogni giorno, realizzando a cadenza periodica appuntamenti straordinari. Sono bravissimi nel marketing della comunicazione e più bravi nell’organizzazione. Un gruppo coeso e variegato, presieduto da Markus, di mestiere infermiere, per hobby pilota e telecronista di rally; in primo piano Francesca, laureata in linguistica moderna, che allatta il piccolo Mattia e modera i dibattiti, poi Veronica, ancora Francesca che di mestiere è psicologa e tanti simpatizzanti: avvocati, magistrati, impiegati, studenti, cui si aggiunge l’insostituibile tecnico, Tommaso. L’associazione dispone di un sito, di una radio e di una webTv. Per l’ultimo evento, in ordine di tempo, cui ha partecipato anche il sindaco eletto nelle fila di FI, Walter Ra’, anche lui una nuova leva della politica, la scelta è caduta su un titolo, che non ti aspetti: «La gentilezza e la rivoluzione». Il sottotitolo recita: «Come possiamo insegnare il coraggio di essere umani. A scuola e a casa». Negli incontri si cita la mafia liberamente, laddove a Corleone continuano a vivere le famiglie dei Riina, dei Provenzano e dei Bagarella. Si raccontano esperienze, progetti, anche sogni: per Corleone chiede un volto nuovo. Attilio Bolzoni, storico inviato di Repubblica, oggi a Il Domani, tra i grandi esperti di mafia del giornalismo italiano, nel suo ultimo saggio Immortali, scrive che in Italia oggi «c’è più mafia e meno mafiosi. Non si spara più, ma lo Stato non ha vinto. Non fa notizia, si nasconde». Indossa il colletto bianco.
Tutto cambia, dunque, perché nulla cambi? I giovani di «Corleone parla» non sono ingenui, non difettano però di tenacia. Ciò che possono, fanno. Tocca anche alla società, contribuire al cambiamento. E la forza delle idee, si sa, porta lontano.
Pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 30 giugno 2025