firma
Siamo al rischio apocalisse in Medio Oriente, ma il dialogo deve prevalere.

È lunghissimo l’elenco dei Paesi che vorrebbero avere tecnologie militari nucleari, una quarantina. In via preventiva dovremmo immaginate altre quaranta guerre?

L’attacco israeliano contro l’Iran, nella notte tra giovedì e venerdì, giorno di preghiera per i musulmani, proseguito nello shabbat del sabato, giorno di riposo e di preghiera per gli ebrei e tuttora in corso, così come la reazione militare iraniana, spalanca una voragine. È l’ennesima in Medioriente e la più profonda, mentre non finisce la strage genocida di Gaza, così come gli attacchi in Cisgiordania, cui si aggiungono i raid del Tsahal, le forze armate israeliane, contro il Libano e perfino contro il contingente Onu dell’Unifil di stanza in Libano, di cui fanno parte anche soldati italiani, nel clima di angoscia degli altri paesi sui confini, a cominciare dalla Giordania, arrivando in Siria e poi in Egitto.

Le opinioni pubbliche e le cancellerie sono sconcertate dinanzi agli immensi rischi potenziali che si addensano, nell’assurdità del nuovo conflitto deciso da Tel Aviv contro un Paese completamente diverso dagli altri, vuoi per estensione, vuoi per gli interessi internazionali che interpreta. Un conflitto improvviso eppure annunciato nelle intenzioni, oltre ad essere stato preparato da tempo dal governo Netanyahu; concordato con l’amministrazione Trump, ma pare non condiviso nelle ultime ore dal presidente, che però lo ha definito «un grande successo»; nel paradosso di un negoziato in corso con l’Iran sul nucleare. In sostanza, un pasticcio. Una sorpresa temuta, eppure neanche immaginata: «l’essenza del successo» per Netanyahu, giocando su dichiarazioni incrociate opache, ipocrisie politiche e silenzi. In particolare, nei confronti dell’Europa e dei paesi europei, con il resto del mondo, avvertito appena una manciata di minuti prima che le squadriglie aeree israeliane decollassero dalle piste, appesantiti dalle bombe che avrebbero colpito siti militari e obiettivi civili a Teheran. Ai bombardamenti si sono poi aggiunte le attività di intelligence, costruite direttamente sul territorio dagli agenti del Mossad.

Sono stati utilizzati droni esplosivi, che hanno ucciso ufficiali di primo piano e scienziati, impegnati nel programma nucleare iraniano e iper tecnologie mobili, attivate in loco per disturbare le capacità intercettive della contraerea iraniana. Il regime degli Ayatollah, per quanto totalitario, repressivo e feroce ha dimostrato una totale impreparazione, soprattutto all’idea stessa di una guerra che lo veda direttamente coinvolto.

È questo il peggior nemico che minaccia la vita di Israele? Non convince del tutto. Di sicuro, però, l’Iran rimane l’unico grande Paese di religione islamica (sciita) in un’area dove Israele detiene oramai il predomino. Del resto, non ci sono bunker a Teheran, pensati per la sicurezza della popolazione, né in altre parti del paese, all’opposto di quanto accade in Israele. Il regime non è riuscito a sviluppare un diffuso apparato militare industriale, fatta eccezione per i sistemi più leggeri come i missili balistici e da ultimo i droni, mentre a proposito di nucleare, proprio a seguito dell’accordo disdetto dal presidente Trump nel suo primo mandato, nel 2018, il processo di arricchimento dell’uranio, che era stato interrotto, è ripreso senza riscontri critici accertabili. Di fatto, invece, le maglie del sistema di potere, rimaste serrate in occasione dell’ondata di proteste che avevano attraversato il Paese, quando donne e studenti sfidavano il regime, appena cinque anni fa, mentre i governi occidentali rimanevano colpevolmente inerti dinanzi alle decine di innocenti trucidati, si sono dimostrate di burro nel clima di corruzione dilagante in Iran e del ricatto portato con le armi da Israele, che può contare sull’America di Trump.

Già in altre occasioni si era avuta la conferma della cautela espressa dagli Ayatollah, contro i rischi di una guerra. Dai tempi dell’assassinio del generale Qassem Suleimani, figura carismatica, comandante della Quds Force all’interno della Guardia della Rivoluzione iraniana, un assassinio autorizzato proprio da Trump nel suo primo mandato, la reazione era stata più che contenuta. Poi l’omicidio del capo dei negoziatori di Hamas, lo scorso anno, colui che doveva trattare la pace per Gaza, Ismail Aniyeh, fatto saltare in aria in compagnia della sua guardia del corpo, con una bomba collocata dal Mossad a Teheran, addirittura in una residenza considerata protetta dal regime. Anche in quel caso, la ritorsione non solo era stata annunciata con anticipo, ma aveva avuto portata ridotta.

Difficile allora giustificare un attacco deliberato, presentato come preventivo dal governo di Netanyahu, nei confronti di un Paese sicuramente ostile, per quasi cinquant’anni collettore di istanze estremiste, ma a sua volta obiettivo di estremismo (prossimo alla possibilità di avere la bomba atomica?) che potrebbe portare all’apocalisse. Sono solo nove al mondo i Paesi che dispongono di tecnologie militari nucleari, tra cui Israele, mentre è lunghissimo l’elenco dei Paesi che vorrebbero averle, si calcola una quarantina.

In via preventiva dovremmo immaginate altre quaranta guerre? E come non prescindere dal clima di condanna, che dopo venti mesi di sangue, aveva mosso oltre i sentimenti popolari, finalmente i governi (perfino la timida Europa) pronti a riconoscere i diritti dei palestinesi contro Netanyahu e i suoi ministri, accusati di crimini contro l’umanità? Da un momento all’altro ecco invece che la strage genocida di Gaza non è più l’obiettivo principale del governo di Tel Aviv e ritorna nel buio, Teheran vince la pole position. Nelle narrazioni dove i ruoli dei buoni e dei cattivi sono stati fissati da tempo, gli alleati occidentali tornano dalla parte di Netanyahu. Ritornano anche i limiti della narrazione: si vedono e si sentono soprattutto immagini e notizie che riguardano Israele, quasi che i morti degli altri e la devastazione oltre confine valgano di meno. Ce ne sono invece da una parte e dall’altra. Potevano essere evitati. Purtroppo la tragedia della guerra non fa scuola. L’Iran, con la sua storia millenaria, fortissima della propria identità, nonostante il regime teocratico che la governa da più di quarant’anni, non è ricattabile al pari di un Paese qualsiasi, né ha mai subito dominazioni straniere. Non rischia il collasso, può tuttavia marcare il contagio. Le cancellerie più avvedute, dal Mediterraneo fino alla Cina, ne sono consapevoli. Almeno questa volta, ci si augura che prevalga il dialogo.

Pubblicato su La Gazzetta del Mezzagiorno del 16 giugno 2025

Scroll to Top